di Mauro Calise | il Mattino
La legge elettorale, si sa, è la madre di tutte le vittorie - e, ovviamente, sconfitte. Le sue regole determinano chi
viene favorito e chi, invece, ci rimette le penne. Sempre, ovviamente, che i contendenti siano in grado di
calcolare quali siano realmente gli esiti del meccanismo con cui competono. Per fortuna, non va sempre così.
Altrimenti, chi ha la maggioranza non farebbe che manipolare le norme a proprio vantaggio. E resterebbe
sempre in sella. La storia elettorale italiana dimostra, invece, che anche le leggi peggiori possono rivoltarsi
contro chi le ha inventate.
E' il caso del famigerato Porcellum, così battezzato da Sartori perché il suo ideatore, il leghista Calderoli, disse
che era «una porcata». Più esattamente, una porcata doppia. In primis, perché istituiva un premio di
maggioranza che non c'è in nessuna democrazia al mondo, consentendo a chi ha un terzo dei voti di prendersi
una super maggioranza in Parlamento. Inoltre, ha dato ai partiti il diritto di designare, al posto degli elettori, chi
sarà deputato o senatore. Un potere che neanche Caligola avrebbe sognato di avere. Grazie al Porcellum,
Berlusconi ha stravinto. Ma è stata una vittoria di Pirro. La sua maggioranza bulgara, invece di dargli stabilità,
ha alimentato le divisioni. E si è arrivati alle defezioni. Prima è stato il turno di Fini. Oggi è la Lega ad
interrogarsi se le conviene legarsi un'altra volta al carro del Cavaliere. Col rischio di farsi contagiare dalla sua
immagine logorata. E col pericolo, ancora peggiore, che stavolta sia il centrosinistra a prendere più voti, e a
beccarsi il superpremio di maggioranza.
E' probabile che, se potesse, Berlusconi farebbe oggi volentieri un passo indietro, per cambiare nuovamente le
regole. Ma a sinistra non gli offrono una sponda. A parole, si dicono sdegnati dai guasti della legge attuale, e
prontissimi a modificarla. Come sostengono e chiedono a gran voce tutti gli organi di informazione. Ma, si sa,
trovare un'altra formula, che soddisfi tutti gli appetiti, non è facile. Anzi, è difficilissimo. E mentre si moltiplicano
i tavoli, le proposte, le mediazioni, è probabile che alcuni leader della sinistra si siano già - come dire -
rassegnati all'idea di tenersi il Porcellum. Almeno per il prossimo turno elettorale. Poi, una volta incassata la
vittoria, si potrebbe riprendere il discorso, magari senza eccessiva fretta.
Gli unici, in questa partita, che continuano a rimetterci sempre sono, purtroppo, gli italiani. Che non sanno
come uscire dal pantano. Hanno capito che è una legge capestro, ma non sanno come sbarazzarsene. Se non
ricorrendo di nuovo allo strumento del referendum. I tempi per l'abolizione del Porcellum attraverso la via
referendaria, però, sono molto lunghi. E se la crisi politica precipita, il referendum diventa un'arma spuntata.
Facendo aumentare il rischio che, proprio nel momento in cui si avverte più forte la necessità di un radicale
cambio di leadership governativa, ciò avvenga sotto l'ombrello protettivo - e avvelenato - di una pessima legge.
Se si tornasse a votare col Porcellum, diventerebbe irresistibile la tentazione di mettere insieme tutte le forze
del centrosinistra: PD, Idv, Sel e le varie frange della sinistra radicale, recentemente rianimate dai successi alle
amministrative e ai referendum. Ma quale sarebbe la coesione di questa coalizione arcobaleno al momento di
entrare, tutti insieme, nella cabina dell'esecutivo? Tanto più che, nella situazione drammatica in cui versa
l'economia italiana, la garanzia di tenuta non riguarda solo i vertici del governo a Roma. Ma anche, e
soprattutto, i rapporti che Roma ha con il territorio. Ormai è sotto gli occhi di tutti che il paese si sta scollando.
Letteralmente, venendo a pezzi. In parte per gli errori strategici di un disegno istituzionale che, al posto del
federalismo solidale di cui per anni ci siam riempiti la bocca, ha accentuato le diseguaglianze, e le distanze, tra
le aree del paese. Ma a questo scollamento tra il centro e la periferia ha non meno contribuito l'estrazione del
ceto politico che oggi siede in Parlamento. Nei giorni scorsi, Umberto Ranieri ha denunciato pubblicamente che
ci sono parlamentari Pd eletti - si fa per dire - a Napoli, che non saprebbero «come prendere un treno per
raggiungere la città». E' un'immagine iperbolica, ma rappresenta, in modo amaro e graffiante, la realtà di un
ceto romano del tutto autoreferenziale.
Se torniamo a votare col Porcellum, è inutile farsi illusioni. Quale che sarà il vincitore, sarà lontano, anzi
lontanissimo dai problemi dei territori. E, come oggi stiamo vedendo, al danno si aggiungerà la beffa. L'unico
punto su cui a Roma concordano a proposito della crisi dei rifiuti, è che la colpa - e le gatte da pelare - sono solo
degli amministratori locali. Tanto, sono i sindaci che rischiano la faccia e la poltrona al cospetto dei propri
elettori. La loro poltrona, a Roma, se la tengono bene incollata con l'unico mastice che conta: la fedeltà al
capocorrente da cui dipende l'elargizione.
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