Sempre più spesso i comportamenti individuali e collettivi in Italia sembrano mossi da un oscuro «cupio dissolvi». Questo avviene perché il concetto di bene comune e di vantaggio reciproco, che dovrebbe ispirare in tutti atteggiamenti e scelte razionali, non è più da tempo la stella polare di una comunità nazionale squassata dalla ricerca spasmodica, e talvolta pretestuosa, del conflitto. Si finisce così col fare del male agli altri senza arrecare benefici a se stessi. Il tipo di situazione che lo storico Carlo Cipolla definiva la «legge del cretino».
È evidente che a Pomigliano chi ha votato no ha votato contro il proprio interesse primario, e cioè garantire futuro e lavoro alla sua fabbrica. Ci sono tanti compagni operai, dalla Polonia a Torino, che stanno alla finestra fregandosi le mani, sperando che Marchionne porti ora la Panda dalle loro parti togliendola a Pomigliano. Si dirà: ma chi ha votato no l'ha fatto proprio perché non ha accettato uno scambio tra diritti e lavoro, e si è levato in difesa dei primi anche a costo di perdere il secondo.
Mi permetto di dubitarne. Nessuno, in provincia di Napoli, è disposto a perdere il lavoro per non perdere diritti. Semplicemente perché senza lavoro non c'è nessun diritto, e perché solo se c'è lavoro ci si può poi battere per i diritti. Il comportamento razionale di tutti quegli operai che, pur non essendo iscritti alla Fiom, hanno votato per la Fiom, sarebbe dunque stato quello di salvare l'azienda e poi cominciare dal giorno dopo a battersi per riprendersi i propri diritti. Ciò che, in sostanza, aveva proposto la stessa Cgil.
Ma irrazionale è stato anche il comportamento di Marchionne. La stella del manager col maglioncino, che piace a destra e a sinistra, che è rispettato come un guru in Italia perché viene dal Canada, nasce dal fatto che è considerato estraneo ai giochi politici nostrani e alle lotte intestine del sindacato, e che pensa solo al bene della sua azienda. Questo patrimonio di autorevolezza, che aveva portato l'opinione pubblica italiana a parteggiare per lui invece che per quei trinariciuti della Fiom, è stato rapidamente dilapidato nei giorni che hanno preceduto il referendum. Con una serie di comportamenti - dalla denuncia sprezzante degli operai di Termini come hooligans, alla incredibile idea di organizzare una marcia pro Fiat a Pomigliano come replica farsesca di quella dei 40mila di Torino - Marchionne è parso impegnato sempre più in una battaglia ideologica vecchio stampo, del tipo: spezziamo le reni al sindacato rosso. Marchionne aveva il coltello dalla parte del manico, perché la ragione era dalla sua parte. Ma ha usato quel coltello per ferire. E ha ferito l'orgoglio di molti lavoratori, spostandoli dalla parte dell'estremismo della Fiom. «Marchionne mi ha insultata», diceva ieri una lavoratrice non sindacalizzata al “Sole 24 ore” per spiegare il suo no.
Se il manager lavorava fin dall'inizio per far fallire l'operazione Panda a Pomigliano, si è comportato coerentemente. Ma siccome non era e non è così, il suo comportamento è stato irrazionale. Chi lo conosce dice che lui è così, e che preferisce la verità alla diplomazia. Ma ora la diplomazia dovrà usarla lo stesso, quantomeno nei confronti di chi, nel governo e nel sindacato, gli è stato alleato e ora gli chiede di non fare scherzi e di non rimangiarsi l'investimento. Questa prima performance della Fiat globalizzata e de-montezemolata, insomma, non è stata brillante. Anche nell'era della modernità il consenso è un bene prezioso, e bisogna sudare per guadagnarselo.
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