LA RELAZIONE DI LUCA BIANCHI (vedi allegato)
GLI INTERVENTI
Ugo Marani
Ogni volta che si affrontano le determinanti della crisi di una grossa entità metropolitana, nel nostro caso quella di Napoli, si chiamano in causa tre ordini di responsabilità diverse: quelle statuali, quelle della regione e quella dell’istituzione comunale.
Su questo siamo tutti d’accordo: nessuno negherebbe una profonda relazione tra intervento dell’amministrazione pubblica, gli indirizzi finanziari e allocativi della regione e il grado di benessere del comune partenopeo.
Le divergenze, tuttavia, nascono quando si cerca di precisare i nessi di causalità. Per spiegarci: è la situazione di crisi della città di Napoli spiegabile per intero con il contesto delle politiche economiche nazionale e regionale o, invece, esistono limiti strutturali e perduranti nella gestione della cosa pubblica partenopea?
Storicamente gli amministratori della città, non ultimi quelli attuali, hanno teso a privilegiare la prima ipotesi, ovvero che il quadro di riferimento nazionale abbia costituito il principale fattore di inasprimento della crisi della città, tramite il depauperamento dell’industria pubblica o l’assottigliarsi di finanziamenti alle amministrazioni locali.
All’opposto vi è chi, pur consapevole della scarsa attenzione che alla città è riservata a livello nazionale, imputa agli amministratori della città responsabilità non inferiori a quelle dei governi nazionali.
La critica assume declinazioni diverse ma, di certo, alcune paiono più pregnanti e fondate:
A) L’assenza di un modello strategico identificabile.
La continuità sostanziale della giunta comunale per un decennio circa non è mai riuscita ad esplicitare gerarchie di obiettivi, di breve e di medio periodo, che consentissero ai cittadini di capire dove si volesse “andare a parare”. La cultura dell’emergenza è risultato il solo dato distinguibile, tralasciando di fatto la circostanza che la sommatoria di troppe urgenti decisioni di breve periodo stabiliscono, di fatto, una cattiva strategia di lungo periodo.
B) La mancanza di un sogno collettivo condiviso.
Ogni grande metropoli, europea o statunitense, che abbia dovuto registrare il peso della deindustrializzazione manifatturiera nell’area urbana ha dovuto mobilitare risorse, finanziarie e intellettuali, per una riconversione produttiva che fosse socialmente accettabile e condivisa. E’ successo a Pittsburgh, Dresda, Jena, Barcellona, solo per citare gli esempi più evidenti. Solo Napoli e Glasgow hanno fallito in tale progettualità. E non è un caso che Glasgow sia la cornice in cui si distendano le straordinarie ambientazioni di Ken Loach sull’esclusione sociale. Noi non abbiamo nemmeno quelle. La zona orientale e Bagnoli sono moniti assordanti.
C) L’attrazione di una mediocre imprenditoria.
La classe dirigente napoletana si è di certo dovuta misurare con un ceto imprenditoriale poco incline al rischio e molto legato alla committenza pubblica: una casta brava a predicare il mercato ma pronta a razzolare sui finanziamenti pubblici. La mancanza di qualità è certamente un’attenuante se tale imprenditoria è di rado frequentata e se i suoi servigi sono centellinati. Se, invece, tali frequentazioni sono sistematiche e se la relazione è privilegiata, l’attenuante si trasforma in un’aggravante.
Queste le tre principali critiche. Forse non sarebbe nemmeno serio che un programma di governo per la città ci prometta di superarle miracolisticamente. Ma che ne ammetta l’esistenza non dispiacerebbe all’elettore.
Gennaro Biondi
Il mio vuole essere un breve intervento relativo alla metodologia di costruzione di un progetto per la città al fine di non ripetere errori del passato . Parto da una considerazione relativa ai dati fornitici dallo SVIMEZ. Pur apparendo estremamente interessanti – soprattutto quelli relativi al mondo del lavoro – essi di fatto fotografano una situazione in linea di massima ormai ben nota a tutti ma soprattutto appaiono come un rappresentazione di un “passato” seppur recente. Poiché la realtà in tutti i suoi diversi aspetti risulta sempre più ed in maniera irreversibile disegnata dal cambiamento e dall’innovazione, evidentemente “il racconto” del passato remoto appare come condizione necessaria ma non sufficiente per costruire un futuro che tenga conto dei nuovi termini della modernità. Su questa base penso che bisogna spostare l’attenzione dai dati strutturali a quelli cosiddetti “comportamentali” ovvero individuare quelle linee di tendenza maggiormente incidenti sull’organizzazione del territorio e sugli assetti economici e sociali della città. La “behavioral analysis “ ( espressione della programmazione urbana statunitense) tende a simulare il futuro prossimo venturo sulla base della valutazione delle principali variabili del cambiamento e soprattutto sulla base delle aspettative dei fruitori delle decisioni politico – istituzionali. Si tratta in altri termini di suddividere il territorio non per sezioni geografiche, così come ancora oggi si propone da più parti nel caso napoletano, ma di individuare i diversi piani( fenomeni) che provocano il cambiamento e definirne innanzitutto la loro “spazialità differenziata” ( ovvero il territorio di incidenza, dalla scala di quartiere a quella metropolitana).
Napoli è una città articolata e complessa nella quale i fenomeni economici, le problematiche sociali e l’organizzazione del territorio esprimono interrelazioni estremamente intricate ed intricanti il che significa che non si può intervenire in un settore senza valutare le conseguenze negli altri. C’è dunque bisogno di costruire una visione strategica del cambiamento che definisca i caratteri somatici e funzionali della città del prossimo ventennio, Definire un’identità urbana competitiva sullo scacchiere globale significa valorizzare le sue vere potenzialità e non inseguire falsi miti di una modernità non sostenibile. Città del turismo? Città dell’industria innovativa? Città del terziario? Tutte ipotesi legittime e con le proprie motivazioni e le specifiche difficoltà. Ma se Napoli vuole accettare la “sfida della complessità” che hanno già affrontato con ottimi risultati tante altre metropoli europee – da Barcellona a Bilbao, da Valencia ad Istanbul a Dublino ed a Berlino deve ritrovare la capacità di mettere in campo “un sogno razionale” ovvero una grande ipotesi del proprio futuro credibile perché costruita sulle proprie risorse materiali ed immateriali e soprattutto a misura dei fruitori del suo futuro. Penso ai 5000 laureati che l’anno scorso hanno abbandonato la città, penso al forte incremento dell’esclusione sociale, penso al processo di deindustrializzazione urbana che caratterizza anche le piccole e medie imprese impegnate sulle nuove frontiere dell’innovazione , penso alle problematiche degli anziani che continueranno ad aumentare nei prossimi anni, penso soprattutto alla vivibilità dello spazio urbano. E qui il discorso diventa sostanzialmente di tipo politico. Poiché i tempi della programmazione non coincidono praticamente mai con quelli del consenso elettorale, il più delle volte – come dimostra la storia non solo napoletana – al progetto strategico si preferisce un programma fatto di una sommatoria di piccoli interventi in grado di creare aspettative in diversi settori dell’economia e della società locale. Il che si traduce in una strategia “del galleggiamento” che risulta distante anni luce da quella che dovrebbe tararsi sulla irreversibile sfida del cambiamento e della competizione internazionale che impegna ormai tutte le grandi città europee. Tutto ciò è possibile a Napoli? Forse la prima consiliatura Bassolino costruita su un grande progetto culturale della città rappresenta un esempio che almeno smorza il pessimismo sempre più dilagante rispetto al futuro di Napoli.
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